Argomento
Una certa agitazione sta aleggiando in casa Foxconn.Lo scorso luglio il portavoce dell'azienda Vincent Tong aveva rivelato l'intenzione di spostare le linee di produzione da Shenzhen all'Hebei, regione nel nord del paese, allo scopo di abbassare i costi di produzione. Ovvero gli stipendi dei lavoratori. Le proteste degli scorsi mesi, e soprattutto i numerosi suicidi che si presume essere dovuti alle infime condizioni di lavoro ed al basso salario, avevano portato ad una grande pressione mediatica sulla dirigenza, che aveva deciso, nella sua infinita magnanimità, di aumentare gli stipendi, portandoli, secondo alcune stime, ad una media di 2,000 Yuan Renminbi (al cambio attuale €225), inclusi gli straordinari, mentre la paga base si aggirerebbe intorno ai 1,100 Yuan Renminbi. Si tratterebbe comunque di un aumento inferiore rispetto a quanto precedentemente promesso dall'azienda. Foxcoon impiega attualmente circa un milione di persone di cui 450.000 circa a Shenzhen. Gli altri stabilimenti si trovano a Langfang, Taiyuan, Tianjin, e Beijing, ma ne esistono anche in Finlandia, Vietnam, Messico e Brasile. Lo spostamento delle linee di produzione a Langfang comporterebbe un pesante ridimensionamento del personale a Shenzhen: si parla di 350.000 posti in meno, ma l'intenzione parrebbe quella di chiudere definitivamente l'impianto teatro di tanti problemi; in tal modo i migranti provenienti dal nord potrebbero giovarsi di una maggior vicinanza alla propria terra d'origine ed alle famiglie, potendo essere reimpiegati a Langfang, nel Hebei appunto. Sempre a luglio si è parlato inoltre di spostare il dipartimento di computer business presso Chongqing e Wuhan, mentre sarebbe in progetto un nuovo impianto a Zhengzhou. Altre fonti parlano invece di Chengdu, nello Sichuan. By User:Ran image converted to GIF image by user:Timeshifter (Image:China administrative.png) [GFDL or CC-BY-SA-3.0], via Wikimedia Commons Così, se da un lato si tagliano i posti, negli altri stabilimenti si assume, e Foxconn ha annunciato di voler portare la manovalanza alle proprie dipendenze a circa 1,3 milioni. Il che significa assunzione di altri 400.000 lavoratori. Le stime sono ovviamente imprecise, comunque tra posti persi e nuovi si dovrebbe avere un incremento di qualche decina di migliaia, se non addirittura 100.000. L'investimento, tra traslochi, nuovi impianti, ammodernamenti ecc, costerà alla Hon Hai Precision Industry, che controlla la Foxconn, circa 260 milioni di dollari, secondo quanto riportato dai media di Taiwan. Il colossale piano d'investimenti, associato alla riorganizzazione degli asset, ha portato i lavoratori nuovamente sul piede di guerra. Se da un lato le proteste in passato si erano già fatte pressanti, per via delle condizioni lavorative e del basso salario, il management dell'azienda aveva tentato di porvi rimedio attraverso i già menzionati aumenti e la firma di un contratto che vietava ai dipendenti di suicidarsi. Non sembra che ciò sia stato ritenuto sufficiente dalla manodopera locale, che ora può anche contare su di un atteggiamento apparentemente più benevolo da parte del governo centrale. Quest'ultimo pare infatti intenzionato, attraverso una serie di nuove leggi, a riconoscere i sindacati dei lavoratori. In tal modo questi avranno un maggior potere contrattuale, e la cosa spaventa talmente i Paperoni asiatici da spingerli verso altre nazioni vicine. Non è detto perciò che il governo centrale non decida di ritornare sui propri passi. Ad ogni modo, allo stato attuale, una cosa pare certa: l'intenzione di spostare le linee di produzione ed altro al nord consentirà a Foxconn un netto risparmio sugli stipendi, senza contare che chi è nato nelle province del sud non è certo felice della rilocazione degli stabilimenti. Per questo circa 7000 lavoratori hanno inscenato nei giorni scorsi proteste dinnanzi ai cancelli della fabbrica di Foshan, vicino a Guangzhou, rivendicando migliori condizioni. Ufficialmente la compagnia ha negato trattarsi di una protesta organizzata, riferendo solo di alcuni lavoratori che chiedevano un incremento di stipendio. Tuttavia questi asseriscono di essere stati minacciati di licenziamento qualora entrassero in sciopero. Che Foxconn non sia un istituto di beneficenza, lo si era capito da tempo. Tutte le sue mosse sono incentrate all'ottica della massimizzazione del profitto, con buona pace della manodopera costretta a condizioni di lavoro disumane. Nell'ultimo anno tuttavia questa ha iniziato a prendere coscienza della propria forza. Nonostante i tentativi dell'azienda, con la complicità della politica cinese, sempre ben disposta a chiudere un occhio quando si parla di denaro (ma guarda!) di imbrigliarla, le proteste non sono affatto diminuite. Quel patto che lega il mondo del business in Cina e la politica nazionale e locale si sta lentamente incrinando sotto i colpi di migliaia di lavoranti (pochi paragonati al totale) che mettono a rischio il proprio posto e spesso anche la propria incolumità fisica per ottenere migliori condizioni per tutti. Il fatto stesso che ora queste notizie vengano diffuse è già un segnale positivo. Molto resta ovviamente da fare, e sarà interessante capire cosa farà il governo, da quale parte si schiererà più a meno apertamente, sicuri che farà comunque propria la pratica del cerchiobottismo tanto cara agli italici onorevoli. L'equilibri fra le parti è fragile. Fino a quando sarà sufficiente un contentino ogni tanto alle masse di disperati che vivono e muoiono in quelle fabbriche lager?
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